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Il restauro del monastero di San Mose l’abissino, Nebek, Siria

Anno: 1998

a cura di: AA.VV

Contenuti:

 

Damasco 1998, formato 20x28, 252 pagine, illustrazioni a colori e in b/n, testi in italiano e arabo, fuori commercio

 

 

 

ABSTRACT

 

Nel giugno 1985, a seguito di accordi fra Ministero Affari Esteri-Dipartimento Cooperazione e Sviluppo e Ministero Beni Culturali-Istituto Centrale del Restauro, viene eseguito, da tecnici dell’ICR, il primo sopralluogo al Monastero di Mar Musa. L’edificio sorge a circa 90 km da Damasco, presso Nebek, all’interno di una stretta gola rocciosa, in zona montana e desertica, sopra uno sperone di roccia isolato da tre lati che ne rendeva facilmente difendibile la posizione. Il primo nucleo edificato era, molto probabilmente, una torre di guardia di origine romana, come si deduce dai grossi massi isodomi ancora in situ in una parte del basamento. Sui resti della torre è nata la struttura monastica, con un primo insediamento fortificato altomedioevale. Il monastero si è in seguito ampliato per successive addizioni, comprendendo anche la costruzione di una piccola chiesa a tre navate con l’interno completamente affrescato. All’epoca di quella prima presa di contatto - estate 1985 - il monastero era comunque ridotto a poco più di un rudere: tetti quasi ovunque crollati, murature dissestate, finiture, impianti e attrezzature inesistenti. Era arduo pensare di poter intervenire efficacemente, anche considerando la particolarità delle condizioni logistiche: terra straniera, collegamenti e rifornimenti difficili, nessuna cognizione a priori delle tecniche e dei materiali costitutivi del monumento. La decisione di intraprendere il restauro di Deir Mar Musa ha così costituito, per la struttura dell’ICR, l’occasione per verificare la propria capacità operativa e per testare sistemi e metodiche in un intervento complesso (dipinti murali e struttura architettonica) e condotto in una situazione ambientale sfavorevole. Bisogna però specificare che la consapevolezza che non si trattasse di una decisione avventata era garantita dalla compresenza dei requisiti minimali necessari per il successo di un intervento: la capacità e l’esperienza tecnica degli operatori dell’ICR, una ridotta, ma sufficiente disponibilità economica per opera del Ministero degli Esteri, e soprattutto una chiarissima opzione in tema di futura gestione e destinazione d’uso del monumento. Su questo terzo punto vale la pena di spendere qualche riga per la sua valenza di carattere più generale. È riconosciuto da tutti e da tempo che la miglior garanzia per la conservazione dei monumenti consiste nel trovare le più adatte destinazioni d’uso che assicurino loro un gestore responsabile che si faccia carico della custodia e della manutenzione. È anche per questo che un manufatto che passa dallo stato di edificio funzionante e funzionale a quello di rudere perde la capacità di autofinanziare il proprio mantenimento, costituendo, quanto meno, un problema economico aggiuntivo. È quindi, in linea generale, da sconsigliare se non da escludere l’intervento di restauro su un qualsiasi edificio fino a quando non siano stati individuati con esattezza: l’entità responsabile della futura gestione, la destinazione d’uso, il progetto, anche distributivo e funzionale, che di quella destinazione d’uso rappresenta la materializzazione. Tutto ciò non vale naturalmente se si tratta del semplice restauro di una facciata o di elementi decorativi la cui funzione è solo quella di autorappresentarsi, ma deve valere in tutti gli altri casi, anche se questa opzione teorica non è sempre seguita dalla pratica. Si continua infatti a praticare, anche in alcune Soprintendenze, il cosiddetto restauro statico-strutturale dei monumenti in modo preliminare e sganciato dalla prosecuzione dell’intervento, come se solo in un secondo momento si potesse o si dovesse decidere cosa fare dell’edificio e trascurando il fatto che il restauro statico pone precondizioni poi immodificabili (capacita di carico dei solai, distribuzione di servizi e impianti, ecc.) che pregiudicano seriamente il successivo restauro distributivo e funzionale. Fortunatamente la nuova regolamentazione per i lavori pubblici sui beni culturali, in fase di avanzata definizione, è in grado di ridurre questa incongruenza esigendo stadi avanzati di progettazione prima di autorizzare i finanziamenti. Tornando a Deir Mar Musa e alla sua destinazione d’uso, non c’è mai stato dubbio che il monastero dovesse essere sede di una comunità religiosa, perpetuando quindi, in modo ottimale, la sua originaria funzione, con il proposito lungimirante ed utopistico di promuovere e facilitare, in una terra di scismi e lotte religiose proprio l’incontro e il dialogo fra le diverse e confliggenti professioni di fede. La presenza e l’attivismo nel progetto e sul cantiere del responsabile di quella comunità, ha garantito l’aderenza degli interventi effettuati alle necessità dell’ utenza futura, anche se l’accentuazione di tali esigenze può aver lasciato in ombra, a volte, l’opportunità di una più filologica conservazione di alcune strutture. D’altra parte, un monumento cosi visibilmente segnato da una dinamica di successive modifiche, rifacimenti, ampliamenti, si mantiene, in questo modo, nel solco naturale della sua acquisita struttura formale. Il tutto, naturalmente, secondo le regole: utilizzo di materiali e tecniche tradizionali, rispetto della preesistenza, rimontaggi per anastilosi, riconoscibilità delle addizioni. Il binomio brandiano restauro-riconoscimento si è puntualmente manifestato anche in questo intervento. La conoscenza delle vicende storiche del complesso monastico ha fatto notevoli progressi durante le operazioni di restauro, come è illustrato da più di uno dei contributi presenti in questo volume. È ora più chiara la successione delle fasi di realizzazione dei corpi, delle torri e delle mura, così come dei numerosi strati di intonaco dipinto nella cappella, che testimoniano l’avvicendarsi di completamenti, distruzioni, rifacimenti, correzioni iconografiche, mutamenti di gusto o di programma religioso.

La particolare impostazione del programma di cooperazione italo-siriana da cui discende il progetto, ha canalizzato l’attività degli operatori Italiani - specialisti interni ed esterni all’ICR - in una serie di moduli didattici. L’insegnamento del restauro dei dipinti murali e del restauro delle strutture architettoniche ha conferito più ampia valenza a tutta l’operazione e può costituire premessa per futuri ulteriori progetti di cooperazione in territorio siriano.

 

 

INDICE

 

 

Antonio Napolitano, Prefazione

Sultan Muhesen, Prefazione

Pio Baldi, Nota Introduttiva

Paolo Dall’Oglio, Storia del monastero di San Mose l’abissino e descrizione degli affreschi della sua chiesa

Francesco Scoppola, Considerazioni sul progetto di restauro architettonico

Ayman Hamuk, Lavori di restauro al monastero di San Mose l’abissino a Nebek ad opera della cooperazione italo-siriana

Claudio Prosperi Porta, Tecniche edilizie tradizionali: la terra cruda

Michele Cordaro, La conservazione dei cicli dipinti di Deir Mar Musa

Giuseppina Fazio, Sulla tecnica della pittura murale

Livia Alberti, Consorzio Arkè, Osservazioni sulla tecnica di esecuzione

Livia Alberti, Consorzio Arkè, L’intervento di restauro

Gli Allievi del Cantiere Scuola, La documentazione grafica e fotografica per il restauro

Muna Muwazzin, Alcune iscrizioni arabe nella chiesa del monastero di San Mose l’abissino

Ahmad Farzat Taraqgi, Studio dei reperti archeologici nel monastero di San Mose l’abissino

Didascalie delle foto e delle tavole

Fotografie e tavole (numerazione secondo la parte araba)