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Gli affreschi di Polidoro da Caravaggio dal Casino del Palazzo del Bufalo a Roma

stato di conservazione e interventi precedenti

Il 1885 segna il passo del destino dei dipinti del Bufalo: dalla facciata al Museo. Estratti, per essere salvati dalla distruzione, dalla facciata del ninfeo, vengono destinati ad altra collocazione e trattati, secondo tradizione, per la nuova funzione che sono chiamati a svolgere. Il cambiamento è sostanziale, coinvolge l’aspetto come la materia dell’opera, tuttavia l’atto estremo di tutela che li coinvolge avviene in un contesto in cui la riflessione sulle peculiarità della pittura murale e sul destino dei dipinti trasportati matura con il pronunciamento dell’Accademia di San Luca e con gli atti di G. B. Cavalcaselle, all’epoca Ispettore alle Pitture per il Ministero.

La prima questione è, stacco o strappo?  Il dato che si raccoglie è disomogeneo: i pannelli maggiori conservano parzialmente gli strati preparatori, tanto da consentirne lo studio in sezione. Nei restanti sono esigui o non esistono affatto. Eseguito da Pietro Cecconi Principi, il trasporto delle pitture del Bufalo risponde al criterio che si è stati soliti seguire fino a tempi relativamente recenti: staccare ciò che è meglio conservato e strappare ciò che è quasi in rovina. Il trasporto della pittura murale è una pratica che conosce un’ininterrotta applicazione dall’antichità, e nello stacco presenta caratteristiche tecniche costanti: la protezione superficiale, il taglio, l’incassettatura. Lo strappo è invece stabilmente introdotto a partire dal 1785, in area ferrarese, e per eseguirlo ci si avvale della capacità di un collante di strappare il velo più superficiale della pittura, operazione cui fa seguito l’applicazione a tergo di una tela, mediante uno o più strati d’intervento contenenti tradizionalmente gesso e un legante proteico.

Le sezioni stratigrafiche prelevate dal pannello rappresentante Perseo che combatte contro gli uomini di Polidette evidenziano la natura del backing: in adesione alle indicazioni riportate nel manuale di Secco Suardo, si osserva una duplice stesura gessosa, pigmentata in grigio quella a tergo della pittura, bianca l’altra. La “tinta cinericcia” doveva far sì che le minute scaglie di pellicola pittorica, una volta private dell’intelaggio si ricomponessero alla vista in una figura continua. L’operazione di estrazione fu dunque eseguita facendo aderire con colla forte una tela a trama fitta sul recto dei dipinti. Una volta rimossi dal muro si procedette a stendere una malta pigmentata di gesso e colla sul verso, con la finalità di livellare l’intonaco residuo e di tonalizzare quanto affiorante sul recto dalle numerose lacune. Su questo strato fu quindi applicata, con analogo impasto, una tela a trama larga, l’impronta della quale è in alcune zone rimasta impressa sulla superficie dipinta. Il fenomeno è particolarmente evidente nei dipinti con  strati preparatori più sottili.

L’osservazione a luce radente ha consentito di individuare sul recto alcune depressioni ad andamento verticale, soprattutto sui dipinti di dimensioni maggiori, da ricondurre presumibilmente al momento successivo all’estrazione, quando i dipinti erano ancora da ricollocare sugli attuali pannelli rigidi. A completamento i dipinti furono montati su telaio e incorniciati, come documentano alcune tracce di colorazione rossa, particolarmente visibili in prossimità del bordo sinistro di Perseo libera Andromeda. Tra il 1967 e il  1975 con gli interventi di Carlo Matteucci e di Pietro Poggiali si provvide al trasporto delle opere su supporti semirigidi, costituiti da lastre prefabbricate di schiuma poliuretanica e pannelli in vetroresina, in accordo con le sperimentazioni in corso per la messa a punto di nuove tipologie di supporti per i dipinti murali strappati. I nuovi supporti, costituiti da uno strato di schiuma poliuretanica tra due pannelli di vetroresina erano sigillati lateralmente con un bordo sempre in vetroresina.

Per il dipinto raffigurante Perseo libera Andromeda fu invece realizzato un supporto costituito da un unico strato di vetroresina e schiuma poliuretanica: è ipotizzabile che tale pannello fosse il primo ad essere stato realizzato e che la metodologia di costruzione sia stata poi perfezionata per gli altri dipinti, al fine di migliorarne le caratteristiche meccaniche. Distacchi puntuali tra la tela di supporto e lo strato di poliuretano, documentano l’inadeguatezza di questo primo sperimentale prototipo di supporto che, pur conferendo una certa rigidità al sistema, non assicura un’adeguata resistenza meccanica alla struttura che risulta essere flessibile, anche a causa delle considerevoli dimensioni dei dipinti. A questi stessi interventi di restauro  è riconducibile il trattamento delle lacune in sottolivello e di quelle reintegrate con  malta gessosa caricata con inerti scuri e successivamente dipinta di grigio. Le indagini chimiche hanno anche evidenziato la presenza di una resina sintetica di natura acrilica probabilmente impiegata come fissativo o ravvivante della pellicola pittorica.