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Il restauro della "Morte di Adone" del Domenichino a Santa Marta

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Data: 14/12/2020

In onda il servizio del TG2 Weekend dedicato alle attività dell'ICR durante la pandemia

In questo servizio del TG2 (dal minuto 07:51 al minuto 10:21), trasmesso il 12 dicembre nella rubrica "TG2 Weekend", vengono illustrati i restauri in corso nella Chiesa di Santa Marta al Collegio Romano, concessa in comodato d'uso, dal 2017, dalla Direzione Generale Organizzazione all'Istituto Centrale per il Restauro, e le attività didattiche della Scuola di Alta Formazione, che sono proseguite nonostante la pandemia.
In particolare, è in fase di indagini preliminari, nella sede di Santa Marta, la Morte di Adone del Domenichino (Domenico Zampieri, Bologna 1581 – Napoli 1641), proveniente da Palazzo Farnese e parte di un ciclo di tre affreschi realizzati tra il 1603 e il 1604 nel cosiddetto Casino della Morte in via Giulia, un piccolo edificio fatto costruire all’inizio del Seicento dal cardinale Odoardo Farnese quale dépendance intima e raccolta del grandioso palazzo di famiglia.Palazzo Farnese, di proprietà dello Stato Italiano, è la sede dell'Ambasciata di Francia in Italia.
Situato sulla sponda del Tevere, e così denominato per via della contiguità con la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, il Casino, noto anche come Palazzetto Farnese, si apriva al pianterreno su un rigoglioso giardino prospiciente il fiume ed era accessibile direttamente dal palazzo principale attraverso l’arco che scavalca ancora oggi via Giulia, costruito anch’esso per volontà del cardinale Odoardo. Subito dopo la sua costruzione, il Casino venne decorato dall’équipe di artisti diretta da Annibale Carracci, già da diversi anni impegnata nella realizzazione di numerose imprese decorative per la famiglia Farnese, prima fra tutte la celebre galleria del palazzo. Proprio in quella équipe era subito entrato il giovane Domenichino, appena giunto a Roma nel 1602; è infatti attraverso Annibale Carracci che egli riceve l’incarico di realizzare i tre affreschi che, insieme a un mirabile insieme di dipinti su tela, stucchi e affreschi, realizzati dal maestro e da altri membri della bottega carraccesca, decoravano gli ambienti del Casino della Morte. I dipinti realizzati da Domenichino impreziosivano le volte delle due sale del piano terreno nonché della loggia che si apriva sul giardino. Proprio in quest’ultima era collocato l’affresco qui esposto. I soggetti dei tre dipinti, tratti dai miti classici e narrati da Ovidio nelle Metamorfosi, sono Narciso alla fonte (restaurato dall’ICR nel 2018, cfr. immagine in "galleria"), Apollo e Giacinto e appunto La morte di Adone, ovvero tre tragiche storie in cui la morte del protagonista è causa della nascita di un fiore, palese richiamo ai gigli dell’emblema araldico dei Farnese e della personale “impresa” di Odoardo, nonché soggetto ideale per un edificio da giardino, dove venivano peraltro coltivate proprio le specie floreali la cui origine è rappresentata nei dipinti.

Nell’affresco è raffigurato il momento in cui Venere, appena scesa dal cocchio dorato trainato da due cigni, si abbandona alla disperazione nel trovare l’amato Adone agonizzante a terra, ferito a morte da un cinghiale. L’enfatico gesto della dea, che scandisce con chiarezza la composizione del dipinto, non trascende dai canoni di una bellezza ideale e misurata, memore della statuaria antica come della pittura raffaellesca, che caratterizzerà l’attività artistica di Domenichino, destinato ad affermarsi come uno dei protagonisti del classicismo romano di primo Seicento. Tre putti e il cane fedele del giovane morente assistono alla scena, collocata in un paesaggio collinare scandito sulla destra dai tronchi di alcuni alberi, una delle prime prove di quel genere paesaggistico a cui l’artista, sulla scia del maestro Annibale Carracci, avrebbe dedicato una parte molto felice della sua produzione pittorica. Tra i ciuffi d’erba in primo piano, sboccia l’anemone, fiore generato dal sangue di Adone.
Con il tempo il Casino della Morte perse tutto il suo ricco e articolato apparato ornamentale: i camerini del primo piano furono smantellati solo cinquanta anni dopo la loro realizzazione, mentre gli affreschi di Domenichino rimasero in situ fino al 1817, quando, su iniziativa del marchese Fuscaldo, plenipotenziario del Re delle Due Sicilie, erede delle proprietà Farnese, essi vennero distaccati per essere trasferiti a palazzo Farnese, scenograficamente inseriti all’interno di un nuovo assetto decorativo, nelle pareti di una sala adiacente alla Galleria dei Carracci.
Artefice del trasporto fu uno dei più importanti restauratori europei del primo Ottocento, Pietro Palmaroli, già autore, pochi anni prima (1809) del riuscito distacco della Deposizione dalla croce di Daniele da Volterra a Trinità dei Monti. Palmaroli aveva messo a punto una variante metodologica rispetto alle tecniche allora praticate dello stacco a massello o dello strappo: essa consentiva di distaccare gli affreschi conservando un certo spessore dell’intonaco originale, mantenendo così al dipinto, seppure montato su un supporto flessibile come la tela, le caratteristiche materiche proprie dell’affresco, incluse le incisioni e le giunzioni delle giornate. Operazione comunque traumatica, il distacco – oltre a recidere drasticamente i legami con il contesto di provenienza - poteva causare seri danni agli strati pittorici, come microfratture diffuse, alterazioni dovute all’uso di adesivi e protettivi organici, perdita delle finiture superficiali, più fragili.
In seguito, smantellato l’allestimento ottocentesco, i tre affreschi di Domenichino, dotati di semplici cornici in legno modanate, furono appesi alle pareti come quadri da cavalletto. Nel corso del Novecento, un nuovo restauro eliminò anche queste cornici, evidenziando inoltre i margini lacunosi dovuti al distacco ed enfatizzando dunque la condizione di frammento delle tre opere.
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